Laico francescano: quale impegno nella società di oggi
Iniziamo cercando di delineare queste tre espressioni: laico, francescano e impegno… nella società.
Sono tutte parole che prese in se stesse sembrano avere una loro sufficienza, la cosa interessante è combinarle insieme; parlare, appunto, della realtà laicale, dell’essere francescani e interrogarsi, a partire dal carisma condiviso di Francesco, su quali possono essere gli elementi che un laico francescano è chiamato a portare nella società.
Vedremo come il francescano secolare si inserisce nell’ambito del laicato, in senso ampio, cioè dell’essere laici nel mondo di oggi, e, in particolare, dell’essere un laico cristiano.
Il laico francescano è un modo di essere laico cristiano dentro il mondo.
L’elemento francescano qualifica carismaticamente l’essere cristiani dentro la società.
Lo stato di vita laicale, in senso cristiano, è quello determinato dalla iniziazione cristiana: siamo battezzati, siamo cresimati, partecipiamo all’Eucaristia, per essere edificati sempre di più come corpo di Cristo, popolo santo di Dio.
Cristiano, dunque, che vive, innanzitutto, come sua condizione propria, la condizione che hanno tutti gli uomini.
Il laico cristiano, cioè battezzato, è colui che è stato introdotto nei misteri della fede, vive come condizione sua propria quella che di per sé ha in comune con tutti gli altri uomini e le altre donne, quindi si sottomette alla condizione comune ma, con la consapevolezza del proprio battesimo e della vocazione alla santità, senza doversi distinguere, separare, assumendo le proprie responsabilità nell’ambito affettivo, lavorativo, sociale, politico.
La definizione di “laico francescano” comporta la comprensione della dimensione carismatica della Chiesa; il francescanesimo è una spiritualità che scaturisce da un dono peculiare dello Spirito Santo: un carisma.
Un carisma condiviso che lo spirito ha dato a Francesco e che Francesco ha condiviso, non solo con i suoi frati, ma anche con diversi stati di vita, non solo per la vita religiosa, ma, appunto, anche per la vita sacerdotale e la vita laicale.
Il terzo elemento che andremo ad esplicitare è: l’impegno nella società.
La gente, normalmente, vive nella società civile. Il laico cristiano francescano sta nella società, come tutti gli altri uomini e donne, ma con una particolarità che lo caratterizza.
Un laico cristiano, un laico francescano, è uno che sta nella società, come stanno tutti gli altri, ma ci sta non perché subisce questa situazione, ma perché si sente mandato in questa società.
Vive la vita quotidiana come tutti, cioè vive dentro questo mondo, ma lo vive non perché lo subisce, perché si trova nel mondo, ma perché si concepisce mandato.
E’ il battesimo, è il carisma che ti caratterizza e che ti rendono capace di stare nel mondo – come ci stanno tutti gli altri – ma come soggetto, non come uno che subisce.
“Sono nato”, “sono in questo mondo”, “il mio stato è”… sono tutte espressioni passive.
Invece, quello che caratterizza l’essere laico cristiano francescano è che io mi concepisco in questo mondo, dove abitano tutti gli altri miei fratelli uomini, ma ci sono perché mi sento inviato e quindi ho qualcosa di originale da condividere con gli altri.
Questi sono i tre elementi che cercherò di approfondire.
Cominciamo con la questione del laico.
Dobbiamo subito fare una premessa: la parola “laico” è tra quelle più confuse che noi utilizziamo.
Se vogliamo essere dei laici, laici francescani, bisognerà chiarirsi su cosa vuol dire oggi essere dei laici cristiani, francescani.
Diciamo in modo un po’ grossolano che nel medioevo, nella societas cristiana, essere laico vuol dire essere del laos, membro del popolo di Dio, quindi essere un laico vuol dire essere membro del popolo di Dio.
Subito ci accorgiamo che, invece, oggi, nell’epoca moderna, essere una società laica, militare in un partito laico, frequentare una scuola laica, non vuol dire propriamente essere del popolo di Dio, adesso suona in un altro modo: cosa è successo? C’è il passaggio della modernità, dove la società tende non più a concepirsi in senso cristiano, cioè il cristiano non è più l’elemento più universale nella società, ma si cerca di trovare l’elemento universale, pensando la vita come se Dio non ci fosse.
La fede non appare più come la cosa più universale che riporta tutto all’uno, ma diventa fattore divisivo.
Tutte le guerre di religione che insanguinarono per quasi un secolo l’Europa fanno percepire culturalmente l’incapacità del cristianesimo di essere l’universale che unisce.
Pensate ancora a San Francesco che, invece, scrive la lettera a tutti i reggitori di popoli. Questa è una tipica lettera che esprime il carattere universale della fede. Scrive a tutti i reggitori di popoli dicendo che per fare il loro mestiere si devono confessare, devono fare la Comunione, devono fare la vita cristiana.
Oggi, se anche noi lo praticassimo, sentiremmo che è qualcosa di politicamente non molto corretto.
C’è stato un cambiamento di significato della parola laico. Charles Taylor, nel libro “L’età secolare” afferma: come si fa a capire quando inizia la secolarizzazione? Quando la fede diventa un fatto privato, cioè quando la vita pubblica: l’economia, la finanza, la vita comune, anche il divertimento, la cultura si concepiscono senza più fare riferimento a Dio.
La parola “laico”, allora, prende, evidentemente, una significazione diversa.
Come reagisce la Chiesa di fronte a questo fenomeno? In modi diversi. Da una parte si accetta, in qualche modo, la separazione che viene a porsi a questo punto tra la fede, l’esperienza religiosa, e la vita comune. Dall’altra, avviene anche una contrapposizione: il mondo diventa sempre più laico, cioè fa sempre meno riferimento a Dio? Allora io mi contrappongo a questo mondo che diventa sempre più mondano.
Ecco il grande conflitto Chiesa – mondo che segue tutto il processo della modernità, fino ad arrivare al Concilio Vaticano II che San Giovanni XXIII convocherà proprio per questo: non possiamo andare avanti tutta la vita a contrapporci – pensava – la Chiesa facendo così non è più capace di parlare all’uomo di ogni giorno.
Soprattutto, la cosa più impressionante è che la parola mondo, in questa contrapposizione, perde i grandi sapori che la Bibbia accosta a questa parola.
Nel vangelo di Giovanni ci sono due modi con cui Gesù parla del mondo: (Giovanni 3) “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio”, quindi il mondo è ciò che Dio ama. Ma la stessa parola “mondo” in Giovanni 17 diventa “non prego per il mondo”.
Lo fa apposta la Bibbia a tenere questa ambivalenza, perché il mondo è quello che Dio ha creato e che ha chiamato alla santificazione, quindi come realtà buona, molto buona, per la quale Dio dona il suo Figlio, ma la parola “mondo” è anche quella che può chiudersi all’Amore di Dio.
Ecco, allora, l’importanza di rendersi conto che spesso, invece, nella modernità, all’interno della Chiesa, abbiamo usato la parola “mondo” solo in senso negativo.
Questo ha comportato, ad esempio, che in tutta la modernità, la vita religiosa si caratterizza molto da questa separazione nei confronti del mondo.
In qualche modo, la vita religiosa, nell’epoca moderna, diventa un po’ il simbolo del congedo della Chiesa da questo modo che diventa sempre più mondano.
La parola laico, evidentemente, non può più voler dire “membro del popolo di Dio”. La figura del laico, in senso cristiano, diventerà un po’ una figura passiva nella Chiesa. Il laico cristiano è il “cliente” all’interno della Chiesa, ma il vero soggetto della Chiesa sembra, a quel punto, essere il clero e i religiosi.
L’importanza del grande cammino che porterà al Concilio Vaticano II è, invece, quella di ritrovare l’unità del disegno di Dio che ha donato a tutte le cose di essere autonome in se stesse, come la nostra libertà, e che siamo stati fatti in vista dell’essere figli e figlie di Dio.
Un modo interessante per cercare di riscattare la parola laico che nel frattempo si è persa un po’ per strada, dal punto di vista della comprensione cristiana, è quando sorgono movimenti di vita e di pensiero che preparano al Concilio Vaticano II, per esempio la teologia del laicato, con esponenti come Congar per il quale la Chiesa, per la maggior parte, non è fatta di religiosi e di sacerdoti, la maggior parte dei cristiani è laica.
Allora, come mai la stragrande maggioranza dei cristiani non viene considerata in modo attivo, con una soggettività propria?
Qui inizia la grande riflessione che poi il Concilio Vaticano II assumerà, nel riconoscere il cristiano laico come colui che è caratterizzato dalla famosa “indole secolare”.
Questo vuol dire che io mi santifico no nonostante il mondo, ma attraverso la mia responsabilità dentro il mondo; cioè riscoprire il mondo come il luogo in cui io sono chiamato a diventare santo: ordinando le cose a Dio, santifico me stesso.
Non evitando il mondo, perché il mondo è solo il luogo del peccato, ma sporcandoci le mani con la storia, con la vita, quello è il luogo in cui sono chiamato alla santificazione.
Il Concilio Vaticano II ha ripreso questa espressione collocandola all’interno di una visione della Chiesa non più solo come struttura gerarchica, nemmeno solo come religiosi fatti e costituiti in una sorta di stato di perfezione, inaccessibile agli altri (famoso cristianesimo a due velocità: quelli che vanno per la morale dell’obbligo e quelli che seguono, invece, i cammini di perfezione), ma ci restituisce l’idea che la Chiesa è innanzitutto un popolo: il popolo santo di Dio.
Questo viene espresso nel secondo capitolo della Lumen Gentium: la Chiesa come popolo.
Cosa vuol dire “la Chiesa come popolo”? La Chiesa come battezzati: è il Battesimo che ci rende attivi che ci fa soggetti della storia, non persone passive che vivono a rimorchio.
Il popolo cristiano è un popolo di battezzati.
L’altro grande passaggio è che questo popolo, proprio per il fatto di essere battezzato, è chiamato alla santità. Non solo alcuni.
Papa Francesco lo ha richiamato l’anno scorso con la Gaudete et Exsultate, uno dei testi meravigliosi di papa Francesco.
Questo vuol dire che per tendere alla pienezza della vita cristiana non devo per forza andare in convento, non devo per forza separarmi dal mondo, in quanto battezzato, qualsiasi sia il mio stato di vita, sono chiamato a vivere la pienezza della vita.
Ed è a questo livello che viene recuperato anche il termine “laicale”: il cristiano laico è colui che vive questa vocazione dentro le condizioni comuni della vita e questa è una battaglia che, evidentemente, non finisce, ma deve approfondirsi sempre di più.
La parola laico, quindi, in questo caso, va ad identificare le comuni condizioni della vita che noi abbiamo in comune con tutti i nostri fratelli e con tutte le nostre sorelle, ma che abbracciamo proprio a partire dal fatto che siamo popolo di Dio: un popolo di battezzati.
Allora il laico, nel senso cristiano, è il battezzato, l’uomo nuovo.
Quando San Paolo nelle sue lettere parla dell’uomo nuovo, non sta parlando del prete, non sta parlando del religioso, nemmeno del religioso francescano, sta parlando del battezzato.
L’“uomo nuovo” siamo noi, è ciascuno di noi afferrato dalla Grazia, reso partecipe della missione di Cristo, chiamato a portare nel mondo la gioia del Vangelo, vivendo la responsabilità della vita comune, insieme a tutti gli altri uomini.
Questo sale che da’ sapore alle cose, questa luce dentro le cose, ma non perché risplenda di luce propria, ma di una luce che gli è stata donata nella Grazia.
La seconda cosa che approfondiremo è cosa vuol dire essere laici cristiani, nel senso appena descritto, ma francescani.
Qui bisogna capire un’altra parola importantissima, anche qui lungamente dimenticata nella storia della Chiesa, nella storia della teologia e anche nella storia della spiritualità.
Quando io dico “laico francescano”, vuol dire che vivo il mio Battesimo secondo un dono peculiare dello Spirito: cioè il carisma francescano.
Questo dono peculiare dello Spirito che è stato donato a Francesco, per edificare la Chiesa, perché la Chiesa potesse vivere in modo autentico la sua missione, al quale anch’io posso partecipare, vengo reso partecipe.
Quindi, vivo la realtà del cristiano, il cristiano laico, cioè battezzato: il Battesimo è un Sacramento, cioè un segno obiettivo con il quale Cristo ha preso la mia vita e mi ha reso partecipe di sé, della sua novità per tutti.
Il cristiano battezzato, quindi, è innanzitutto caratterizzato da un Sacramento che è un gesto di Cristo. I Sacramenti sono i gesti dell’umanità di cristo che tocca la nostra umanità.
Il sacramento è il gesto dell’umanità di Cristo che tocca la mia vita e nel tempo la cambia, la assimila a sé, mi configura a sé.
Ma proprio questo dono obiettivo, il Battesimo, per essere vissuto, riceve come animazione carismi che ci permettono di approfondire l’essere battezzati, che ci permettono di approfondire l’esperienza cristiana, che ci permettono di approfondire il Vangelo, secondo quella modalità spirituale messa in atto da un carisma.
Essere laico francescano, allora, vuol dire una laicità che dipende da un particolare dono carismatico partecipato: quello di Francesco d’Assisi.
“Carisma” è una parola dimenticata ben presto nella Chiesa, anche i patrologi ci dicono che i padri della Chiesa hanno usato questo termine con una certa difficoltà, proprio perché è prevalsa, nella concezione ecclesiologica una visione fondamentalmente istituzionale della Chiesa.
Per molto tempo abbiamo rischiato di far coincidere la costituzione della Chiesa con la sua istituzione.
In qualche modo la vita religiosa, durante la storia della Chiesa ha un po’ mantenuta accesa questa dimensione carismatica.
Perché è stato dimenticato il termine “carismatico”? Perché, spesso, la parola “carisma” è stata la parola alla quale appellarsi per contrapporsi alla dimensione istituzionale, alla dimensione gerarchica, alle forme costituite all’interno della comunità ecclesiale.
Qualcuno, in nome di un carisma, per esempio, si sentiva libero dall’appartenenza alla comunità cristiana, alla sua autorità, a volte persino dalla Scrittura: io ho un rapporto diretto con lo Spirito Santo, perché devo stare qui a partecipare alla vita di tutti gli altri, quello serve per le persone normali; io che sono stato toccato da un certo carisma ho un mio percorso che mi emancipa dalla vita comune.
C’era, dunque, il rischio di concepire il carisma come un qualcosa di parallelo, rispetto alla vita cristiana comune, invece è un modo per approfondire il mistero del battesimo che mi ha afferrato e mi ha reso partecipe della vita della Grazia.
Bisogna superare questo rischio di percepire la vita istituzionale della Chiesa da una parte e la vita carismatica dall’altra, con il pericolo di vivere in modo conflittuale questo tipo di rapporto.
A volte abbiamo assistito a questo. Un’istituzione che si pone contro il carisma e il carisma che si sente antagonista dell’istituzione, della gerarchia, ad esempio, che è il modo più classico con cui questo conflitto è stato presentato.
Pensate a quello che Francesco farà nei confronti, per esempio, della gerarchia nella chiesa, pur essendo lui un grandissimo carismatico, non si sente in contrapposizione, anzi, pensate a tutte le cose che scrive sull’Eucaristia, sui preti, anche quelli poveretti.
Francesco ha un modo ben preciso di vivere il rapporto tra carisma e istituzione, tra carisma e gerarchia.
C’è anche un altro rischio, però, che può davvero capitare, cioè magari non ci si contrappone, ma ci si mette uno di fianco all’altro, senza influenzarsi, senza entrare in rapporto.
Allora c’è la vita della Chiesa, c’è il vescovo, ci sono le parrocchie e poi ci sono i carismi: questo è il rischio di un parallelismo all’interno della Chiesa che, certamente, è meglio della contrapposizione che alla fine fa diventare sterili, ma che vuol dire essere semplicemente l’uno di fianco all’altro, con l’accortezza di non schiacciarsi troppo i piedi.
Il Vescovo fa le sue cose, quelli che appartengono a dei carismi fanno le loro cose, basta che non ci si schiacci i piedi! Non è propriamente questa, però, l’idea di un popolo animato da ministeri e carismi all’interno della Chiesa.
Bisogna, invece, riconoscere che sia i doni gerarchici sacramentali che quelli carismatici, si appartengono vicendevolmente, sono co-essenziali, si dice nella teologia contemporanea, e questo è proprio quello che ci fa vedere Francesco, tra l’altro.
Il carisma di Francesco, per esempio, ti fa capire di più che cos’è l’Eucaristia, ti fa capire di più anche la Parola di Dio, ti fa capire di più anche il senso dell’autorità della Chiesa.
Francesco è un punto di non ritorno nella storia della spiritualità, in cui si vede come i doni sacramentali e quelli carismatici si appartengono vicendevolmente.
Pensate al modo in cui Francesco si rapporta alla Sacra Scrittura, pensate al modo in cui si rapporta all’Eucaristia: è la sua vita spirituale a farti capire di più il significato di queste cose.
O pensate a quanto lui sente essenziale il dono dell’Eucaristia, non è che dice: io ho il carisma mio che mi ha dato lo Spirito Santo e sono a posto; invece no, è attaccatissimo all’Eucaristia, anzi è disposto a perdonare tutto ai preti, perché loro hanno il compito di vivere questo gesto che è quello attraverso il quale Cristo si offre a me, alla nostra vita oggi.
A questo punto bisognerebbe ancora una volta citare il Concilio Vaticano II. Dopo tantissimi secoli, torna a parlare di carismi; la parola “carisma” era sparita dal magistero della Chiesa.
Nel capitolo secondo della Lumen Gentium, quello del popolo di Dio che è un popolo sacerdotale, un popolo regale, un popolo profetico.
Quando si mette a parlare della profezia del popolo, il Vaticano II parla dei carismi.
Come facciamo noi oggi a essere un popolo profetico? Per due cose, dice il Concilio: primo perché tutti noi con il Battesimo abbiamo il senso della fede, cioè ci è come dato un senso, una sensibilità soprannaturale che ci fa riconoscere le cose che edificano la fede che diffondono il Vangelo, oppure quelle che sono contrarie.
La Lumen Gentium, sul dono dei carismi, al punto 12 dice: “lo stesso Spirito che agisce nei Sacramenti, agisce quando distribuisce liberamente i carismi”. E’ lo stesso Spirito, per questo non si può essere contrapposti, non si può essere giustapposti, se è lo stesso Spirito che agisce.
E’ una formulazione bellissima, perché dice: attraverso questi carismi, la Chiesa può vivere in modo adeguato alla sua missione dentro i diversi contesti culturali, sociali, i bisogni diversi che la Chiesa deve incontrare.
Allora è bene fare una storia dei carismi, vedere come mai certi carismi sono nati in un certo momento della storia, altri in altri momenti.
San Benedetto, nel momento in cui crolla l’Impero Romano; Francesco, il mendicante, proprio nel momento in cui si passa dal medioevo feudale al medioevo dei Comuni.
E si potrebbe leggere tutta la storia carismatica come questi interventi dello Spirito Santo che rianima il popolo, lo fa diventare veramente un popolo profetico.
Ecco, allora, l’importanza di riscoprire questa dimensione.
Volevo farvi notare una cosa molto interessante: nel medioevo, cioè in un contesto di cristianità, dove nascono, prevalentemente, i grandi carismi?
L’Ordine Francescano Secolare è proprio a testimonianza di questo. Siccome tutta la società è, in qualche modo, una societas cristiana, i carismi nascono a livello della vita religiosa e da lì si partecipano, fino ad arrivare alla vita del popolo.
Da questo punto di vista, l’esperienza del laico francescano è proprio la testimonianza di ciò. I laici riconoscono che quello che Francesco vive con i suoi compagni, riguarda anche loro che sono nel mondo.
Ci deve essere, quindi, un mio modo di vivere quello che Francesco ha ricevuto in dono dallo Spirito Santo.
E’ interessante, invece, che in una società secolarizzata, oggi diventino così importanti i carismi che sono a livello laicale che, innanzitutto vengono riscoperti a livello della vita comune di tutti gli uomini e questa è anche la condizione per riscoprire la vita religiosa, altrimenti rischiamo di essere coloro che devono segnalare la distanza dal mondo che diventa mondano.
Grandi carismi, diciamo così, del XX secolo, sono rappresentati dagli istituti secolari che sono una forma di vita consacrata molto particolare: vivere i consigli evangelici, ma nel mondo, non in convento.
Settant’anni fa la Chiesa li ha riconosciuti; tra l’altro su questo i Francescani hanno davvero avuto tanto da dire, cioè che anche i consigli evangelici sono qualche cosa che noi possiamo vivere nel mondo, perché è il modo di vivere di Cristo.
E’ un modo per richiamare l’umanità di Cristo, ma Cristo accetta con la vita, non è fuori dalla storia, è entrato nella storia.
Noi siamo figli di un Dio incarnato. Allora è interessante notare come oggi lo Spirito Santo fa sorgere e approfondire i carismi proprio a livello laicale, innanzitutto.
C’è una riscoperta del Battesimo, una riscoperta dell’essere popolo di Dio chiamato in forza della fede a trasfigurare il tempo e lo spazio e a portare a tutti la gioia del Vangelo.
Terzo e ultimo punto. Quali sono in questa prospettiva, i tratti del laico francescano nel suo impegno nella società oggi, partecipando all’esperienza carismatica di Francesco d’Assisi.
Di seguito sette punti che approfondiscono il tema dell’incontro.
Primo elemento
Un laico francescano è chiamato a vivere il suo impegno nella società, innanzitutto perché è capace di abbracciare la realtà quotidiana: è uno che non scappa dalla realtà quotidiana. Uno che impara a stare dentro le cose, ad abitare il presente.
Abitare la realtà fin nel suo punto ferito; qui si sta’ evocando, evidentemente, l’esperienza di Francesco con il lebbroso, il suo cammino dalla fuga davanti al lebbroso che è la fuga davanti a una realtà portatrice di una ferita, dove si preferisce l’immagine di un mondo eroico, rispetto alla quotidianità di una realtà ferita.
Tutto il cammino di Francesco, per certi aspetti, potremmo dirlo così e dalla fuga dalla realtà al ritorno, all’abbraccio della realtà.
Arrivare ad abbracciare il lebbroso vuol dire ritornare ad abbracciare la realtà concreta, nella sua ferita, abbracciare sé feriti, abbracciare l’altro ferito.
Quindi c’è come una sorta di realismo francescano che il laico francescano deve portare avanti e che vince, per esempio, in modo fondamentale, la tirannia dell’apparenza: abbracciare la realtà nella sua ferita, liberarsi, cioè, dalla tirannia dell’apparenza che le cose stanno solo nella loro apparenza immediata.
Quanti schiavi dell’apparenza di vita! E dell’apparire, dell’essere riconosciuti dagli altri.
Porre la propria consistenza nella propria apparenza, nell’essere riconosciuti dagli altri, osannati, applauditi.
Il realismo francescano vuol dire, invece, passare dalla tirannia dell’apparenza ad abbracciare la realtà nella sua concretezza, nella sua finitezza, anche nella sua ferita.
E per questo può seguire l’invito di papa Francesco, di sostenere una cultura dell’incontro, contro la cultura dello scarto, proprio perché nel DNA francescano c’è questo realismo buono che abbraccia la realtà nella sua ferita.
Secondo elemento
Un dato fondamentale si è imposto nel processo della modernità che, sostanzialmente, è quello che Paolo VI chiamava “la separazione tra la fede e la vita”, la separazione tra il Vangelo e la cultura, cioè perdere la pertinenza umana del Vangelo, quindi non capire più il nesso tra Cristo e la nostra esperienza quotidiana.
Mi sembra che l’essere laico francescano e partecipe all’esperienza spirituale fatta da Francesco voglia dire: ritrovare in Cristo la risposta a quelle domande che il mondo, nella sua ferita, porta con sé.
Cioè Cristo come risposta alle ferite dell’umanità.
E questo, secondo me, sintetizzato dall’esperienza del crocifisso di San Damiano che abbiamo tutti davanti.
Che cos’è l’esperienza dell’incontro col crocifisso di San Damiano? E’ vedere un uomo ferito che ha preso su di sé le nostre ferite, ma le ha risignificate, le ha fatte diventare non segno di sconfitta, ma segni di un amore più forte del male, più forte del peccato, più forte della morte.
E’ molto bella l’immagine del crocifisso di San Damiano – che come sappiamo è il crocifisso giovanneo – in cui il Cristo è, nello stesso tempo, l’Agnello che vive come immolato e il Cristo morto, perché ha già le ferite, anche il costato, cioè colui che proprio perché ha dato la vita, ha preso su di sé il nostro male e ha vinto il nostro male.
Noi abbiamo bisogno, non solo che i preti dicano queste cose,non solo che i frati e le suore dicano queste cose, ma che il laico dentro la vita di ogni giorno, mostri come Cristo ci permette di riabbracciare nuovamente l’umano e le sue ferite.
E’ qui che scopro la bellezza di Cristo, è qui che scopro l’attrattiva di Cristo. Cristo non mi porta dei doveri in più nella vita, ma, innanzitutto, fa scaturire il desiderio grande di seguirlo, perché ha la capacità di donare un significato grande alla vita, alla nascita, alla morte, al dolore, alla gioia, a tutto.
Ritrovare un senso per cui valga la pena vivere e attraversare il dramma dell’esistenza umana.
Terzo elemento
Questo è un compito laicale, cioè non basta, appunto, che il prete, il frate dicano: guarda che Gesù è il significato della tua vita, devi scoprirlo dal di dentro della tua esperienza laicale, cioè dal di dentro della condizione umana che vivi ogni giorno e condividi con tutti gli altri uomini, solo se tu lo riscopri lì dentro, potrai dirlo a tutti quanti gli uomini, perché che lo dica il prete dal pulpito non basta, lo devi poter testimoniare tu dal di dentro della tua esperienza umana, dal di dentro del tuo dramma antropologico.
Se tu fai l’esperienza che Cristo rimette insieme la tua umanità, ti fa tornare la voglia di vivere, di abbracciare la vita, anche nelle sue ferite.
Allora, questa testimonianza può colpire l’uomo contemporaneo.
Noi abbiamo bisogno di rivedere questo nella carne, non nei pensieri, nella carne: che Cristo rimetta insieme la mia umanità, Cristo prenda su di sé le mie ferite.
Questo Gesù che sta’ a fondamento del mio impegno dentro la società, non è semplicemente uno al quale io mi ispiro, ma è uno che io riconosco presente, qui e adesso.
Il laico francescano non è colui che si ispira un po’ a Gesù, a questo grande personaggio della storia vissuto duemila anni fa in Palestina, da cui io prendo alcuni valori interessanti. Per Francesco, Gesù era contemporaneo alla sua vita, era qui e adesso. Questo lo si vede benissimo da come Francesco sente l’Eucaristia e come sente la Parola di Dio.
Quando Francesco ascolta proclamare la Parola di Dio, per lui quello è Cristo che sta’ parlando in quel momento; tant’è vero che se dice di andare “a due a due senza sandali”, lui si toglie i sandali, perché è cristo che gli sta’ parlando in quel momento.
Questa cosa la dirà, pensate, il Concilio Vaticano II nella costituzione sulla liturgia, quando dice: quando nella celebrazione viene proclamata la Parola, lì è Cristo che parla alla Chiesa oggi.
Cristo non parla solo nel passato, parla adesso e, se parla adesso, muove la tua vita; quindi, il fondamento dell’impegno nella società non è una vaga ispirazione a Gesù che è vissuto tanti anni fa.
Non è un grande personaggio della storia, anche il più grande, ma è uno che è qui, presente adesso, per questo muove la mia vita.
Su questo bisogna stare molto attenti, perché se manca l’esperienza che Gesù è contemporaneo alla mia vita, noi finiremo per sostituire Gesù con qualcos’altro.
Se noi non riconosciamo e non sperimentiamo più che qui Gesù è presente adesso nella nostra vita, nella nostra Fraternità, nella vita di ogni giorno, nel fratello che incontriamo, nel povero in cui ci imbattiamo, finiremo per sostituire Gesù con qualcos’altro.
Un Gesù percepito come assente, finisce per generare in noi qualche cosa che lo sostituisca, per esempio cercare un certo sentimento dentro di noi, sentire che Gesù è presente, ma come se non ci fosse un segno reale che mi tocca realmente.
Oppure dire, generalmente, che Gesù è dappertutto, ma è dall’Eucaristia che imparo a vederlo dappertutto.
Quella Parola che muove il mio cuore è proprio Lui qui adesso che sta’ parlando alla mia vita e mi sta’ chiamando.
Il grande pericolo è, soprattutto, quando non riconosciamo più che Cristo è presente oggi nella nostra vita che ci chiama, che ci interpella, rischiando, così, di sostituire la presenza di Cristo con il nostro fare e questa è una delle cose più pericolose.
Dipendiamo dall’esito del nostro impegno, facendo così il nostro impegno diventa schiavo, mentre noi siamo chiamati ad essere, nella società, dei propagatori di un’etica della gratitudine che rispondono ad una presenza che ci ama.
Non è il nostro impegno che produce Cristo è Cristo che muove la nostra vita all’impegno, è tutta un’altro mondo.
Quando sono mosso da questa presenza che riconosco amante nella mia vita, oggi, che mi rivolge la sua Parola, che oggi dona il suo corpo e il suo sangue, allora la mia azione è azione di gratitudine: l’etica della gratitudine.
Persone grate a Cristo, per il suo Amore che cercano di viverlo dentro ogni gesto della propria vita.
E da qui, allora, scaturisce l’altra responsabilità fondamentale del laico francescano dentro la società: essere una presenza capace di generare relazioni fraterne, a partire dall’esperienza di Francesco, “il Signore mi diede dei fratelli”, riconoscendo che il fondamento di ogni fratellanza sta nel mistero del Padre che Gesù ci ha rivelato.
Siamo tutti fratelli e sorelle, perché siamo voluti tutti dal mistero del Padre.
Questo è fondamentale nello sguardo con cui ci guardiamo tra di noi e lo sguardo, magari fuggevole, che abbiamo nei confronti di quelli che incontriamo una volta, per caso, sull’autobus, sul treno.
Avere coscienza di essere voluti dal Padre, perciò siamo figli, per questo siamo fratelli e c’è un fondamento alla vita fraterna, ma c’è un fondamento ad essere promotori di fratellanza che non conosce confini che non conosce muri, perché siamo stati toccati dalla rivelazione del figlio di Dio che ci ha detto che tutti noi siamo voluti, siamo amati, siamo tutti dentro un disegno buono.
Allora il francescano laico che vive nel mondo, gomito a gomito con i propri fratelli e le proprie sorelle, lì è chiamato a portare la scintilla di vita fraterna.
Diventare operatori di rapporti buoni, di rapporti fraterni, cioè che riconoscono l’altro come figlio, anche se, magari, l’altro stesso non lo sa.
Io sono stato reso consapevole di questo, per essere portatore di una responsabilità da condividere con tutti.
E’ molto bella la vita fraterna nel Primo Ordine Francescano, nel Secondo Ordine Francescano, dove si vive una vita fraterna dentro la comunità, dentro il convento, ma che il laico francescano sia un portatore di fraternità, stando gomito a gomito con gli altri uomini.
Senza di questo, qualcosa di essenziale del francescanesimo non è vissuta.
Quinto elemento
Il quinto passaggio è come una declinazione importantissima di questo dal punto di vista sociale.
Come si fa ad essere promotori di vita fraterna? Come si fa ad essere promotori di una fratellanza universale, se non riconoscendo il nostro essere voluti dal Padre, essere voluti da Dio?
Noi ci siamo perché un altro ci vuole; il primo che incontro per strada c’è, perchè è voluto.
Io sono chiamato a riconoscere il mistero che abita ogni persona, cioè il mistero dell’essere voluti da sempre, da Dio, dentro un disegno.
Come potrei vivere questo, se non riconoscessi che questo Amore del Padre che mi ha strappato dal nulla e mi fa essere, è un mistero di Amore misericordioso, cioè capace continuamente di perdono?
Senza l’esperienza del perdono e della misericordia, non c’è edificazione e rapporti fraterni, non c’è possibilità di diffondere una fratellanza universale.
Pensiamo, ad esempio, la lettera di Francesco ad un ministro: come si sta di fronte ai frati che sbagliano.
Ci sono due cose bellissime in questa lettera, di cui una assolutamente laicale, quando questo ministro voleva smettere di fare il lavoro che stava facendo, per potersene stare da solo presso Dio, in un eremo.
Francesco gli dice: “Per obbedienza stai proprio con quelli che sembrano distoglierti dal tuo rapporto con Dio”.
Quello che a me sembra mi distolga dal rapporto con Dio, Francesco dice: “guarda che Dio ti sta proprio parlando attraverso questa cosa qua”; una cosa più laica di questa!
Ciò significa che il rapporto con Dio passa attraverso il rapporto con te, passa attraverso il rapporto con tutti coloro che incontro nella mia vita.
Non c’è rapporto con Dio, se non c’è rapporto con l’altro, in questo senso l’altro è sempre qualcuno per il quale dio ha dato suo Figlio.
L’altro ha un carattere sacramentale, il fratello, la sorella, hanno un carattere sacramentale, se sono segno del mistero di Dio che bussa alle porte della mia libertà.
E questo amore, una cosa fondamentale di questa lettera, è assolutamente laicale. Il rapporto con Dio non è un escamotage per saltare la realtà, al contrario, il rapporto con Dio ti impegna nel rapporto di responsabilità dentro la società, nel rapporto con l’altro, chiunque sia.
Quello che ti è dato: il Signore mi “diede” dei fratelli, non mi “scelse” dei fratelli, me li diede.
C’è il riconoscimento in ogni persona della mano di Dio che te la pone dinanzi.
L’altro punto importante della lettera è l’atteggiamento di Francesco di fronte a colui che sbaglia è la possibilità continua di rilanciare il rapporto, di ricominciare sempre.
Da questo punto di vista la responsabilità laicale che deriva da un’intuizione di Francesco come questa è che il perdono è un bene sociale.
La misericordia è una parola assolutamente intrisa di bene sociale. Se noi non scopriamo questo, facciamo del perdono e della misericordia delle parole astratte, invece francesco ci insegna la strada per scoprire il bene sociale che è il perdono, la capacità di ricominciare, di non aver mai chiuso con te.
Non potrò mai dire: “basta, con te è finita!”, perché tu sei dentro un mistero che ha dato la vita per noi sulla croce, allora non c’è scusa al poter ricominciare sempre, perché noi siamo figli di questo Padre che non si arrende mai di fronte al male dei propri figli, ma dona il suo Figlio affinché abbiamo la salvezza.
Quindi dobbiamo essere nella società come promotori di riconciliazione, scoprendo che il perdono è un bene sociale senza il quale la società diventa, prima o poi, un inferno: prima prima che poi!
Sesto elemento
Il Cantico delle Creature, il Cantico di frate Sole, la riscoperta, cioè, di una positività inesauribile in tutta la realtà, nel suo carattere finito, contingente.
Qui è interessante stare attenti a due cose dell’esperienza di Francesco di cui veniamo resi partecipi, di cui voi avete la responsabilità laicale.
Prima di tutto, in questo Francesco ci fa capire il senso profondo di una responsabilità nei confronti del creato; la cosa più sbagliata è concepire in modo naturalistico questa responsabilità nei confronti del creato.
Ai tempi di Francesco non c’era bisogno di difendere la natura, era il contrario, occorreva difendersi dalla natura che era sperimentata come aggressiva, quindi non è in un senso naturalistico che Francesco ama e vuole custodire il bene della creazione, in tutta la sua complessità e in tutta la sua diversità.
Non ci si deve dimenticare, in particolare, che Francesco scrive questo cantico alla fine della sua vita, quando aveva già ricevuto le stimmate, quando era diventato cieco, perciò dice: “Laudato Sii, mi Signore…”, per il sole, quando il sole non lo può più vedere; per le stelle, quando le stelle non le può più vedere; delle cose che ormai lui non può più vedere, perché ormai le cose gli sono dentro.
Unito a Cristo redentore, capisce il senso dell’opera del Padre Creatore.
Per questo un laico francescano non può essere, genericamente, un ambientalista, ma è uno che sostiene l’ecologia integrale: dell’ambiente, della persona, delle relazioni.
Un’ecologia delle relazioni, un’ecologia dell’umano, un’ecologia dell’ambiente.
Di fronte a quello che noi stiamo vivendo, a livello antropologico, le strade sono due: o noi siamo l’esperimento di noi stessi, ci facciamo e ci distruggiamo, oppure noi siamo persone in relazione.
Anche qui arriva la fraternità, la fratellanza universale, riconoscere che siamo in rapporto con tutte le cose: “Tutto è in relazione”, non “tutto è relativo”.
Allora l’ultima cosa non potrà che essere, naturalmente, l’umiltà e il dialogo, all’interno della società, come responsabilità del laico francescano, in modo particolare con coloro che appartengono ad esperienze religiose differenti.
Il dialogo interreligioso, come qualità laicale delle relazioni sociali. Se non la viviamo noi questa responsabilità dentro la società, soprattutto in un tempo come quello di oggi!
Nel capitolo XVI della Regola non bollata, Francesco ci indica “come andare tra coloro che sono infedeli”.
Il primo modo che Francesco ci indica sia quello di evitare di fare dispute, di fare dialettica, con l’intento di far vedere che noi abbiamo ragione che noi siamo più intelligenti che abbiamo la teoria migliore su Dio e sulla realtà.
Francesco è per la testimonianza umile che è una testimonianza di servizio all’altro, chiunque esso sia.
Un sottomettersi, ma non per paura, per amore, perché Dio è il primo che si è sottomesso; allora l’umile non è il debole.
Dio non è debole, è umile, si è sottomesso alla storia, per questo anche noi siamo chiamati a dare testimonianza di Dio, servendo.
Poi, aggiunge Francesco, quando ti accorgerai che il Signore te lo chiederà, vivi la testimonianza, testimoniando di essere cristiano, nessuna testimonianza anonima: confessando di essere cristiani.
Quando ti accorgi che il Signore questo ti chiederà, allora annuncia il Vangelo esplicitamente.
Questa capacità di essere fermento di fraternità, attraverso la testimonianza, capace di dialogo, capace di creare legami forti, significativi.
Io credo che in questi punti, in modo frammentario, ci sia almeno qualche cosa della responsabilità del laico francescano del nostro tempo.
Alcuni spunti sul significato di testimonianza
Noi non ci aspettiamo un ritorno ad un tempo in cui, convenzionalmente, eravamo tutti cristiani. Il cristianesimo di convenzione deve essere sostituito da un cristianesimo di convinzione, dove tu fai l’esperienza effettivamente che Cristo risponde al tuo cuore, rimette in piedi la tua umanità, ti rende capace di qualcosa che tu, da solo, non saresti mai stato in grado di realizzare.
Sei tu, allora, testimone di una Grazia che dentro la tua vita pone un principio diverso, per stare dentro questo mondo.
Quando sia papa Benedetto che papa Francesco dicono che il cristianesimo non si diffonde per proselitismo, ma per attrattiva, io credo che si debba intendere, come attrattiva, una testimonianza credibile.
La parola “testimonianza” non mi sembra sia sempre compresa nel suo modo autentico.
Per esempio, una riduzione molto comune della parola testimonianza è confonderla con un’altra parola molto bella, ma che c’entra molto poco: il buon esempio.
L’essenza della testimonianza non è questo. Il buon esempio ti potrà aiutare, certamente, ad essere credibile.
L’ambito in cui nasce la testimonianza è di tipo giuridico, in tribunale. Quando uno è chiamato a dare testimonianza dentro il tribunale, deve dire quel che ha visto o quello che non ha visto?
Non posso andare in tribunale e dire: “ti do’ il buon esempio”; tu devi dirmi quello cha hai visto e su questo devi essere disposto a metterci la faccia, se non sei disposto, non sei credibile.
Capite, allora, che la questione è diversa, cioè la testimonianza non consiste nel fatto che io devo far vedere che io sono il più bravo, ma che io ho visto qualche cosa e che, siccome io questa cosa l’ho vista, non posso negarla e su questo ci gioco la faccia; non mi nascondo dietro quello che ti comunico.
Il testimone è chi gioca la faccia, rischiando la propria libertà, comunicando quello che ha di più caro che a sua volta ha ricevuto: “quello che noi abbiamo visto e udito”.
Da questo punto di vista c’è un bellissimo testo “Sacramentum caritatis”, di Benedetto XVI, l’esortazione apostolica sull’Eucaristia, dove dice: siamo testimoni quando attraverso le nostre parole, gesti, decisioni, un Altro si manifesta e si comunica.
La grandiosità della testimonianza è che è il modo con cui Dio non si impone, ma si propone.
Un testimone, è un comunicatore inerme di una verità che lo supera. Io non ti posso imporre la mia libertà, la mia opinione o la mia verità, ma quello che io ho incontrato, mi espone.
Non a caso, la parola “martire” è quello che esprime la parola “testimonianza”, cioè colui che, su quello che ha visto e udito ci mette a tal punto la faccia, da rischiare la propria vita.
Guardando il martire, capisco quello che sono chiamato a vivere ogni giorno.
Non portare me stesso, il fatto che io sono un pochino più bravo degli altri, il problema è che non posso tacere quello che ho incontrato.
Credo che questo sia ciò che ci rende credibili: il mettere la faccia, non nasconderci dietro le parole e i gesti, ma compromettersi, esporsi alla libertà dell’altro, perché la verità del Vangelo si comunica da libertà a libertà, da testimone a testimone.
Intervento di fr. Paolo Martinelli
Vescovo Ausiliare della Diocesi di Milano
all’Assemblea Nazionale dell’Ordine Francescano Secolare d’Italia
3 – 5 maggio 2019
Sono una mamma napoletana di pozzuoli e vorrei tanto chd i miei figli ragazza e adolescenti potessero svolgere delle attività laiche francescane ma qui a pozxuoli proprio non c è o meglio è molto poco coinvolgente, grazie