Abitare le distanze… nelle famiglie – intervento di Don Alessandro Mazzoni

Capitolo Fraterno dell’Ordine Francescano Secolare della Campania
intervento di Don Alessandro Mazzoni
Direttore dell’Ufficio di Pastorale Familiare dell’Arcidiocesi di Napoli e
parroco della Parrocchia San Giovanni Battista di San Giovanni a Teduccio

Il titolo di questo vostro convegno: “Nuovi stili per abitare le distanze… nelle famiglie” fa un pò riferimento a un progetto triennale 2018 – 2021, di cui poi c’è un paragrafo dedicato alla pastorale familiare.
In primo luogo, io penso che dobbiamo fare una riflessione su quelle che sono le distanze, nel senso che questo titolo lascia pensare che, effettivamente, da parte vostra ci sia la percezione dell’esistenza di una distanza o di più distanze che riguardano in modo particolare il tema della famiglia.
Non ve le sto ad elencare tutte, perché sarebbe abbastanza ampio e forse anche abbastanza noioso, da un certo punto di vista, però vorrei sottolineare come il nostro contesto culturale, sociale, economico è profondamente mutato rispetto al passato, particolarmente quando si tocca il tema della famiglia.
C’è una riflessione che si faceva, con l’Amoris Laetitia di Papa Francesco, cioè che il mutato clima dei tempi va letto non soltanto con un atteggiamento nostalgico, cioè la famiglia patriarcale che molti di noi considerano quello che era il modello tradizionale, tutto sommato, che sembrava andare bene, in realtà era il risultato di una serie di congiunture che erano non solo culturali e religiose, ma anche di tipo economico.
Oggi c’è un mutato clima di tipo economico, anche sociale, per cui quel modello non è più funzionale, rispetto a quella che è la nostra società.
Permettete di fare un esempio, abbastanza banale e che può lasciare il tempo che trova, ma io ho conosciuto dei ragazzi che di impostazione avrebbero gradito quel tipo di famiglia, tradizionale, forse anche leggermente maschilista – che nel nostro meridione non guasta – che di fronte al problema economico hanno detto “mia moglie deve andare a lavorare anche lei, deve dare il suo contributo, perché io da solo non ce la faccio”.
Quindi voi vi rendete conto che, al di là delle questioni che possono essere di tipo ideale, di tipo valoriale e che sono molto belle, in realtà c’è un problema che è anche di natura economica.
Il modello della famiglia patriarcale che reggeva sull’ideale della fedeltà e che magari andava avanti – la famiglia non si separava neanche di fronte alle crisi più gravi -, oggi, probabilmente, non è più funzionale al modello economico di una società che tende al consumismo e che, quindi, ha bisogno di gente che spenda, per andare avanti.
Quel tipo di famiglia che era, invece, quella dei risparmiatori non funziona.
Allora voi vi rendete conto che, effettivamente, bisogna cominciare a leggere anche quelli che sono i mutamenti del nostro tempo, per capirli e per capire effettivamente dove si realizzano queste distanze; quali sono!
E allora, rapidamente – perché non voglio fare un’analisi accurata su questo aspetto – ci troviamo di fronte a una società secolarizzata. Che significa? che ha ridimensionato o messo in crisi i valori religiosi, mettendoli da parte, confinandoli o relegandoli dall’ambito delle scelte private dell’individuo e delle opinioni personali.
Quindi, sarà difficile pensare di trovare un accordo, partendo da quella che è una mia idea che nasce da una prospettiva di fede.
Voi lo vedete anche quando si parla in qualche talk-show ecc., quando uno parte da questo punto di vista, l’altro risponde “va bene, ma questo è quello che pensi tu, io ho la libertà di dire la mia”.
Un secondo aspetto: ci troviamo di fronte a una società sostanzialmente individualista il chè mi spiega che, probabilmente, anche da un punto di vista economico è preferibile la coppia separata, piuttosto che la coppia unita.
Parlare di individualismo significa che, in realtà, ognuno si costruisce secondo i propri desideri che diventano un assoluto. E’ quello che io voglio fare nella mia vita, la realizzazione personale, il mio punto di arrivo, non è altro. Voi capite anche che cosa significa questo a proposito, per esempio, del bene comune. Chi l’ha detto che il bene comune è un ideale condiviso? Probabilmente non più!
Vivo in un quartiere che è San Giovanni a Teduccio dove il bene comune, in realtà non è assolutamente percepito, dove non c’è molta gente che investe da questo punto di vista.
Il modello economico attuale è fondato sull’efficienza e sulla produttività a tutti i costi, con ritmi di lavoro che sono massacranti – perché oggi si lavora anche dieci ore al giorno – e che in realtà promuove, dice Papa Francesco, una cultura che è quella dello scarto. Nel momento in cui tu non sei più una persona efficiente, sei fuori. Non sei fuori solo dai ritmi produttivi, sei fuori anche dalla società, perché diventi un peso per una società che deve produrre o che deve spendere. Se tu mi costi, allora c’è un problema.
Apro una parentesi. Voi vi rendete conto che, probabilmente, dietro tutta la questione del fine vita ci sta anche un problema economico; il costo delle cure e tutto il resto.
Ancora. Oggi è di moda dire che ci troviamo in un contesto che è di vita liquida, cioè dove le convinzioni sono molto fluide; diventa difficile avere delle convinzioni che perseverano nel tempo e Bauman osservava, in modo semplice, che oggi la vita è vissuta in un clima di continua incertezza, le preoccupazioni più pressanti e persistenti che turbano questa vita sono quelle derivanti dal temere di essere presi alla sprovvista, di non essere più in grado di tenere il passo con gli eventi che si muovono a gran velocità e di rimanere indietro.
L’avete mai visti gli adolescenti che guardano l’ultimo modello di iPhone? Ma fateci caso, questo non è un problema solo degli adolescenti, ma anche di noi adulti, perché in fila davanti ai negozi Apple e di elettronica non ci sono solo ragazzini, ci siamo anche noi adulti.
E qualche volta, in questo clima di continuo aggiornamento, upgrade si direbbe, in realtà finiamo per l’esserci anche noi con le nostre comunità ecclesiali.
E, infine, la forte incidenza dei mass-media e dei social-media che è interessante, perché voi vi renderete conto che c’è una velocità dell’informazione che è estremamente rapida, non solo, è un’informazione talvolta ambigua, oggi c’è il fenomeno delle fake-news.
E’ lontano il tempo in cui Orson Welles faceva alla radio lo scherzo in cui diceva che erano venuti gli extraterrestri e ci credettero tutti. Quello era uno scherzo isolato; oggi, con le fake-news, le notizie ambigue o inverosimili sono la costante dei social-media.
Questo, naturalmente, costituisce un problema, ma, in realtà, ci sta anche un fenomeno nuovo: quello della dipendenza dai social-media; questo continuamente guardare il cellulare, per vedere se hanno risposto al mio messaggio o se qualcuno mi ha pensato e questo, naturalmente, ci dice che di fronte a questo fenomeno, anche noi adulti siamo sostanzialmente indifesi, se non stiamo attenti.
Vi accorgete che tutte queste considerazioni che abbiamo fatto, naturalmente mettono in evidenza dei punti ambigui o fragili della nostra cultura contemporanea, ma in realtà mettono in evidenza anche degli aspetti che poi hanno delle ricadute su come noi intendiamo la vita familiare e sui quali si possono creare delle distanze.
Mi spiego bene. In una società secolarizzata, la scelta del matrimonio religioso non sottintende, necessariamente, la scelta di fede, né l’adesione a valori evangelici da parte degli sposi.
Io mi sposo in chiesa, perché ci credo. Ma tu credi che il matrimonio è indissolubile? Certamente! Ma, se andate a vedere, c’è un forte distacco tra quello che io dico di credere, sposandomi in chiesa, e quella che è la realtà. Quindi non ci deve stupire, poi, che ci venga detto, anche a livelli alti che la maggior parte dei nostri matrimoni celebrati ultimamente tendono ad essere matrimoni nulli, perché vengono a mancare quelle condizioni che rendono valido il matrimonio.
Parlare di individualismo non significa solamente dire, in modo astratto, che io mi costruisco inseguendo una realizzazione personale, significa dire che questo è il criterio che si segue anche nella vita familiare.
Vi è mai capitato di cominciare a sentire nella vita di coppia uno dei due che dice: padre io mi devo realizzare? Come a dire, la famiglia, la preoccupazione per i figli è qualcosa che impedisce la mia realizzazione.
Questo comporta l’indebolimento dei legami familiari. Nella famiglia, dove io mi dovrei prendere cura della persona che mi sta accanto, o dei figli, comincio, in realtà, a far passare avanti la preoccupazione per me stesso.
E questo, naturalmente, se viene condiviso, in qualche modo, tra i membri della famiglia, comporta che le relazioni familiari tendono a disgregarsi e ogni componente della famiglia tende a diventare un’isola, non si comunica più: a che scopo comunicare!
Dicevamo che il modello economico – produttivo è fondato sull’efficienza, con ritmi di lavoro sempre più intensi che comportano anche delle difficoltà d’incontro tra i membri della stessa famiglia.
Parlando con una coppia in cui entrambi lavorano, dicevano: Noi quando ci incontriamo? Lui va a lavorare la mattina, io vado a lavorare il pomeriggio, se va bene ci troviamo nello stesso letto la sera, se uno dei due non si addormenta prima da qualche altra parte.
O, ancora, il fatto che, effettivamente, questo modello economico crea poi dei problemi, quando si parla di temi scottanti, collegati alla fragilità della vita, in nostri anziani.
All’epoca in cui frequentavo il liceo, un biologo, di fronte alle malattie ereditarie, pensava che l’aborto selettivo potesse essere la soluzione – qualcosa come trentacinque anni fa – ma la nostra professoressa di biologia dell’epoca protestò e disse: no questa è una cosa di cui non è opportuno parlare! Voi sapete che, oggi, l’aborto selettivo nei paesi occidentali è una realtà. Cioè se il bambino è portatore di una sindrome, come la sindrome di Down, questo è un motivo sufficiente per l’aborto, perché non è geneticamente sano!
Voi vi rendete conto che l’economia fa ritornare dei temi che sono estremamente delicati che erano oggetto anche di teologia, fino a sessant’anni fa, come il concetto di “razza pura”, geneticamente pura. Oggi si aggiunge un aggettivo che, naturalmente, comporta quasi l’eticità di questo discorso.
O, ancora, si parlava di una vita dove le convinzioni sono più fluide, ma diventano più fluidi anche i legami. Che significa parlare di amore, oggi? Io non ti amo più! Non me la sento! Oggi i giovani dicono: io non faccio una cosa se non me la sento! Il problema è non te la senti oggi, non te la senti domani, non te la senti dopodomani e questo fa sì che poi, alla fine, diventiamo persone un po’ schizzate, non ci sono più convinzioni radicate, si ferma un po’ tutto alla superficie del sentire.
Ancora, la forte incidenza dei mass e dei social-media, di cui dicevamo, con il rischio che c’è una famiglia a tavola dove tutti stanno con il cellulare: l’avete mai vista? Non si vede mica solo nei film! Dove sembra che noi stessi, come adulti, siamo incapaci di rinunciare a questo che diventa, per noi, un po’ come la coperta di Linus – per chi si ricorda quella striscia di fumetto – la base per l’autostima e la sopravvivenza.
La cosa ancora più interessante è che, come conseguenza di tutto questo, cambia anche l’idea della famiglia.
Che cosa s’intende oggi per famiglia? Noi, nelle nostre comunità ecclesiali, parliamo ancora di una famiglia cristiana fondata sul sacramento del matrimonio, ma è una delle tipologie di famiglia, ce ne sono altre.
Oggi, ad esempio, si parla di famiglie unipersonali, costituite da un’unica persona, i singol, per esempio. Una coppia giovane che si è separata e che, quindi, praticamente, è rimasta una persona sola.
Oppure, l’immigrato che si trova da solo, il vedovo, la vedova; sono famiglie monopersonali, costituite da una persona sola.
Famiglie costituite da una coppia; e qui potete pensare che in questa tipologia possano rientrare anche famiglie omosessuali: oggi si parla di famiglia. Da un punto di vista culturale ci si chiede ma perchè bisogna parlare di famiglia solo per la coppia eterosessuale: questo è un pregiudizio, culturale e confessionale. Anche la coppia omosessuale può essere famiglia (sostiene la cultura attuale – n.d.r.), perché operare questa discriminazione?
O ancora, la famiglia monogenitoriale. La mamma o il papà che – separati- rimangono con i figli e si trovano da soli a portare avanti una famiglia come unico genitore; l’altro rimane un po’ sullo sfondo.
E così via. Le famiglie allargate, dove io e la mia compagna stiamo insieme; io c’ho i miei figli, lei c’ha i suoi e costituiamo un’unica grande famiglia.
Vorrei farvi osservare che dietro queste considerazioni non c’è tanto un giudizio, però c’è la constatazione che oggi le situazioni sono queste e, quindi, su queste situazioni si vengono a creare quelle distanze, o quei vuoti, quelle mancanze di comunicazione,o quelle comunicazioni equivoche. In altre parole, ci troviamo oggi in un contesto sociale e culturale che è caratterizzato da un forte pluralismo, nel senso che ci sono opinioni diverse rispetto allo stesso problema e parlare di pluralismo significa riconoscere che non esiste un’idea o un’opinione migliore, o che prevale sulle altre e che questa prevalenza sia condivisa, perché più o meno sono tutte allo stesso livello.
In questo senso la persona si trova di fronte di fronte a una varietà di idee, di opinioni, di modi di intendere e di vivere la vita e la vita di fede, diremmo noi, costituisce solo una possibilità tra le altre, oserei dire, tra le infinite altre, per quante ce ne stanno.
Le ripercussioni sulla pastorale familiare sono abbastanza gravi, in quanto si ha l’impressione che la proposta pastorale sia legata, in parte, a un’idea di famiglia parzialmente superata, a ideali e valori che, si pensa, siano ancora comuni e condivisi a fidanzati e coppie sposate, siano essi giovani o maturi.
In altre parole, ma questo non è vero solo per la pastorale familiare, questo è vero in genere, per l’approccio pastorale sia delle parrocchie che delle comunità ecclesiali. I movimenti, le nuove comunità, penso anche i Terzi Ordini che sono un po’ più attenti a quello che succede, probabilmente hanno delle risposte un poco più capaci di intercettare queste problematiche.
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Il corso prematrimoniale, come lo facciamo noi, serve a qualcosa? Assolutamente a niente!
Voi vi rendete conto di quanto siamo in ritardo? Io ricordo che sono arrivato a Napoli verso la fine degli anni ‘80 e che in quel periodo, dalla Diocesi si è cominciato a produrre un librettino che s’intitolava: “Matrimonio” e che proponeva dieci incontri per la preparazione al matrimonio, uno per ogni lettera della parola “matrimonio” – era un acrostico.
Probabilmente siamo già agli inizi degli anni ‘90 quando si è realizzato quel libretto ed era una novità. Di fatto, però, il corso prematrimoniale, o itinerario di fede in preparazione al Sacramento del matrimonio, è in ritardo sui tempi, perché, in realtà, se non si riesce a intercettare prima la coppia di fidanzati, diventa difficile che sia sufficiente il corso prematrimoniale, perché una coppia si avvii in modo consapevole e maturo al matrimonio e questo deve far pensare.
Già è qualcosa se la coppia decide di rimanere in una parrocchia dove ci sono i gruppi di famiglia e allora quello che non si è fatto prima, lo si può recuperare dopo nella formazione permanente.
Ma se è un’esperienza di qualche mese, voi vi rendete conto che andate a fare una proposta a coppie che cominciano ad andare in giro a portare le partecipazioni, poi cominciano a fare le prove per quanto riguarda il ristorante, poi ci stanno le prove dei vestiti… sono già esauriti per conto loro, vi ci mettete anche voi a fare il corso prematrimoniale, magari il sabato sera, come faccio io in parrocchia!
Non sono distruttivo, però, in realtà, voi vi accorgete che, quando si fa questo tipo di proposta, probabilmente, l’idea è che tutto sommato la coppia abbia già a monte un’idea di quello che è il matrimonio, di cosa si aspetta dal matrimonio, che abbia già una catechesi di fondo che oggi, in realtà, non possiamo più dare per scontata.
Ecco perché dico che siamo ancora ancorati, in parte, a degli schemi pastorali che non sono adeguati a realizzare quella presenza che rende abitabile una distanza: tutt’altro!
Faccio alcuni esempi.
Siamo sicuri che i fidanzati abbiano l’idea di cosa sia il Sacramento del matrimonio? Io ho fatto un esempio l’anno scorso: voi sapete che nel matrimonio, nel momento in cui vi sposate, siete sostenuti dal dono dello spirito Santo e che, quindi, Dio entra nella vostra vita? Ci avete mai pensato come sposi? No (è stata la risposta dei partecipanti al corso di formazione al matrimonio – n.d.r.)!
E poi: siamo sicuri che sappiano distinguere la famiglia cristiana e le altre tipologie di famiglie, quello che loro vogliono realizzare? Per famiglia cristiana non intendo la famiglia perfettina, intendo dire una famiglia che ragiona in prospettiva di fede che cerca di camminare, come tutti noi.
O ancora: cosa si intende oggi per apertura alla vita? Il senso di questa espressione.
Come si concepiscono le tematiche percepite connesse col rispetto della vita anche nelle sue fragilità?
L’impressione è che su questi temi, se noi andiamo ad approfondire un po’, scopriamo delle divergenze enormi tra quello che è il nostro modo di pensare, quelle che pensiamo siano le proposte e quello che è il modo di pensare. Io adesso sto facendo l’esempio dei fidanzati, ma questo dovrebbe essere vero anche per coppie già sposate.
Intorno a questi temi si creano le distanze che sono legate, ormai, all’uso di valori non più condivisi e a un diverso modo di intendere le questioni e i valori in gioco, tra chi propone e il destinatario della proposta.
Non solo. Anche il linguaggio, talvolta, è assolutamente inadeguato! Noi parliamo, manco arriva, dobbiamo essere consapevoli di questo. Noi che siamo abituati a frequentare le comunità ecclesiali, i movimenti, nel vostro caso l’Ordine Francescano Secolare, siamo abituati a una serie di linguaggi, all’uso di alcune espressioni, il cui significato, per noi, è scontato, perché ci troviamo in un contesto o in contesti, dove questi valori, questi ideali, questi linguaggi sono condivisi.
Non siamo più abituati a porci in dialogo ad extra, perché, solitamente, tendiamo a evitarlo, talvolta, questo dialogo; non siamo capaci, o ci sentiamo inadeguati, ci sentiamo messi in difficoltà; dovremmo recuperare questa capacità di dialogare.
La consapevolezza che esistono idee, valori, modi di intendere e di volere diversi dal nostro è, secondo me, la distanza fondamentale: dovremmo prendere consapevolezza di questa distanza.
Ricordo che è venuta da me una coppia e mi ha detto: “Padre, pensiamo di fare in quella parrocchia un bel gruppo di famiglia”, ed io risposi: “Siete sicuri, perché io so che il parroco ha degli orari che non conciliano – il gruppo di famiglia si incontra la domenica dalle otto e mezza alle dieci – non ci tiene ad avere orari tali da venirvi incontro”.
Io ne avevo otto di gruppi di famiglia, è stata un’esperienza bella, ma pesante. Se voglio fare un gruppo famiglia non lo posso fare dalle 5 alle 6 della domenica pomeriggio o del martedì, la gente lavora.
Io ci ho messo anni ad accettare l’idea che dovevo rispettare gli orari della famiglia, perché se voglio parlare con la famiglia, devo accettare che è così.
Vi rendete conto che questo, naturalmente, costituisce un problema; se io dico che alle sette e mezza la parrocchia deve chiudere, io quando li faccio gli incontri con la famiglia?
Un altro elemento è la presenza dei bambini.
Le coppie giovani, oggi, rispetto al passato, non li lasciano dai nonni e dalle nonne, per più di un motivo.
Primo perché ci sono dei nonni e delle nonne ancora giovani che dicono: senti io ho la mia vita, per una volta te li tengo, ma non ci contare ogni volta. Abbiamo la nostra vita.
Alcuni (nonni), perchè sono troppo anziani; o perché i genitori giovani non si fidano, talvolta, dei nonni, per una serie di motivi.
Vi rendete conto che la presenza dei bambini, qualche volta, vista da noi, dal clero, diventa un problema, perché non abbiamo la capacità di accettare che probabilmente bisogna proporre qualcosa anche ai bambini; quindi non abbiamo veramente un atteggiamento inclusivo.
Quando questo si verifica, siamo noi, senza farlo a posta, che creiamo la distanza con la famiglia, perché non siamo in grado di accoglierla come famiglia, per quello che è.
Mi ha colpito l’osservazione di Fabio Rosini – (sacerdote e biblista – n.d.r.) – che diceva: tante volte noi pensiamo di imporre alla vita i nostri schemi.
Ma una coppia si deve rendere conto che la vita di famiglia, quando arriva un bambino, diventa un caos.
Io non posso imporre a quella famiglia la mia idea di ordine e di orari della parrocchia, così come non posso imporre a un bambino di due anni, di tre anni, di stare in silenzio durante la riunione del gruppo; probabilmente dovrò organizzare qualcosa.
Se si fa questo, allora sei in grado di intercettare la famiglia, di abitare quella distanza, ma se non si è in grado di fare questo, quella è una distanza che si allarga, perché la famiglia si sentirà non capita.
Dice Papa Francesco: “Talvolta abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.” (A.L. 36).
Vi racconto un episodio. Io ho due nipoti, ormai quindicenni, che sono gemelli. Quando mia cognata è rimasta incinta, mio fratello ha telefonato tutto gioioso: stavano in pizzeria a festeggiare con tutti i parenti. Dopo due settimane mi richiama un’altra volta – manco mi saluta! – e dice: “Aò, so due!”. Non solo. Quando mi ha raccontato che a un certo punto la ginecologa ha detto: “Guardi che qui c’è una terza sacca, non si muova”, mio cognato mi ha detto che in quel momento si stava sentendo male. Per fortuna era vuota (la sacca)!
Perché vi racconto questo fatto? La mia prima reazione, quando ho sentito che erano due, è stata il desiderio di dire: “Doppi auguri!”; poi, fortunatamente, ho sentito il tono di voce e mi sono detto “datti una calmata”, perché, effettivamente, il tuo modo di percepire le cose è molto diverso da quello concreto della persona che sta là e che comincia a pensare che deve comprare il doppio dei pannolini, il doppio di tutto.
Mi diceva un amico, sposato da poco: tu non sai quanto si spende al mese per i bambini!”, ma me lo diceva quasi piangendo.
Perché ho fatto questo esempio? Perché quando io vado a dire: Guarda, apriti alla vita, mettiu al mondo tanti bambini!
Il che è vero, è bella l’apertura alla vita, lo si fa con uno spirito di provvidenza, ma mi devo ricordare che per me è facile dire una cosa del genere, grazie tante. Devo rendermi conto che non posso presentare l’ideale della maternità sulle nuvole, lo devo presentare nella sua concretezza, se no sembra che stiamo prendendo in giro la gente, ed è così!
Oppure quelli che dicono: Sposati, non ti preoccupare, poi fila tutto liscio! No, aspetta, cos’è che fila tutto liscio?
E chiaro che le cose presentate con quell’atteggiamento un po’ poetico, come di chi sta sulle nuvole e dice. “Che bello, che bello, vai tranquillo!”.
I piedi devi tenerli per terra anche quando fai una proposta, devi rendere conto.
Io ho continuato, durante l’anno, a “mazzolare” uno dei fidanzati che conosco, perché mi sono reso conto che ci sono alcune debolezze caratteriali.
E’ inutile che gli dico: guarda non ti preoccupare per il matrimonio, perché se le riporterà anche nel matrimonio.
E lì si crea un’altra distanza, perché la bellezza dell’ideale non va presentata così, ma va concretizzata. Si crea una distanza tra quella che è la realtà che talvolta prende strade diverse da quelle che io desidero, è quello che è l’ideale che talvolta rischia di diventare fumo negli occhi.
E, infine, chiediamoci se come Chiesa siamo stati veramente presenti e segno di misericordia per tutte quelle famiglie che hanno vissuto momenti di crisi.
Forse qualche volta, un po’ tutti, di fronte a una coppia che aveva dei problemi non abbiamo neanche fatto la domanda tradizionale: come va? Voi sapete che questa domanda è pericolosa, perché, se trovate quello che vi risponde davvero, non la finisce più.
Quanti separati e divorziati lamentano che, al momento della separazione, si sono sentiti abbandonati e giudicati dalle comunità ecclesiali, piuttosto che essere sostenuti e incoraggiati.
Non sempre si è capaci di considerare quanti sono passati a nuove nozze, come fratelli e delle sorelle nella fede, chiamati a fare un gioiosa e feconda esperienza del corpo di Cristo che è la Chiesa e di considerare questi fratelli separati, passati a nuove nozze, destinatari dei carismi dello Spirito. Guardate che non sono parole mie, stanno nella Amoris Laetitia.
Anche noi dobbiamo chiederci: quanto, tra le nostre proposte pastorali, fatte con tanta buona fede, di fatto abbiamo generato delle dinamiche di non accoglienza che hanno creato delle distanze.
Di gente che abbandona le nostre comunità ecclesiali per questi motivi ce ne sta tanta.
[Voi direte], tu adesso ci hai presentato tutta una serie di problematiche, quasi con un atteggiamento da demolitore, ma ci stanno delle possibilità di approccio pastorale? Ci sono delle proposte? Come facciamo ad abitare queste distanze?
Perché ho come l’impressione che, a un certo momento, questo passaggio lo dobbiamo fare, se no ce ne andremo via veramente scoraggiati.
Che facciamo nelle parrocchie? Che facciamo in quest’anno come Ordine Francescano Secolare?
Come colmare queste distanze? Intanto, onestamente, dobbiamo stare attenti. Io non so se voi, qualche volta, percepite come nelle comunità protestanti c’è una forma di adeguamento a quella che è la società.
Luterani, anglicani, anche valdesi, talvolta hanno avuto dei pastori sposati, separati, divorziati, omosessuali, sono molto più favorevoli al divorzio, e così via.
E questo, in qualche modo, ci viene rimproverato, perché dicono: voi come chiesa cattolica non vi adeguate.
Dobbiamo fare attenzione, perché, questo tipo di adeguamento non è una proposta pastorale, non lo è!
C’è stato, una volta, uno che mi ha detto: “Padre, voi vi dovete aggiornare, non è possibile che state ancora così!”. Non è questo l’aggiornamento che dobbiamo fare, i valori non sono sindacabili o negoziabili, né tantomeno, il tanto discusso capitolo 8 dell’Amoris Laetitia si permette di farlo; non lo fa, non mette in discussione i valori!
Quindi, questa non è una soluzione. Quando fu chiesto a Papa Francesco, durante uno dei viaggi di ritorna dall’America Latina: ma lei cosa ne pensa degli omosessuali? Papa Francesco ha detto: Io non giudico nessuno! Quale è stata la traduzione di qualche pia donna della parrocchia? Hai visto, pure il Papa ha detto che va bene!
Papa Francesco dice: “Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire.” (A.L. 35)
I nostri valori non devono essere messi in discussione, anche se ci sentiamo con un complesso d’inferiorità, rispetto al mondo che va da un’altra parte.
Io penso che con lo slogan “abitare le distanze” si intendano, sostanzialmente, due cose: la prima è implicita, cioè accettare che tali distanze esistono e sono reali. Siamo onesti; per i motivi che ci siamo detti queste distanze ci sono e talvolta diamo anche noi una mano a crearle.
La seconda è la più importante. Abitare significa: starci. La casa è abitata se uno ci sta, allora dire che dobbiamo abitare le distanze significa dire che, in qualche modo, dobbiamo essere presenti lì e che questa distanza diventa una realtà vissuta, cercando di costruire al posto del vuoto. Perché, quando diciamo che siamo distanti, significa dire che tra me e te c’è un vuoto, come nel brano del Vangelo in cui, tra il ricco epulone che sta all’inferno, diremmo noi, e il posto dove sta Abramo c’è una distanza che non si può colmare che non si può riempire.
Ecco, allora, dire che dobbiamo abitare una distanza, significa dire che ci dobbiamo stare che la dobbiamo vivere e che dobbiamo essere capaci di creare una nuova connessione, cioè una occasione di dialogo.
Di questo se ne parlava già negli anni settanta, perché vedete che i cambiamenti di oggi sono, in realtà, molto antichi. – Io ho letto il manifesto della psicologia umanistica che già conteneva alcune delle cose che ci siamo detti. – Ebbene, già agli inizi degli anni settanta si diceva che tra gli imperativi della pastorale familiare rinnovata c’è una costante tensione a recuperare ciò che di positivo c’è nei cambiamenti in atto, anche quando sfuggono alla presa della pastorale della stessa azione della comunità cristiana nel suo complesso.
Tutti i fenomeni che accompagnano la trasformazione della famiglia italiana di oggi dovevano già essere oggetto di una particolare attenzione diretta a mettere in luce quanto assumibile sul piano del valore. Questo ci dice che ci sono dei mutamenti che noi non riusciamo facilmente a decifrare o che sfuggono anche alla presa, cioè difficilmente riusciamo a considerarli, riusciamo a digerirli.
Ebbene, di fronte a questo, siamo chiamati a un lavoro complesso e faticoso, ma non per questo meno necessario e diretto a far emergere quanto di inconsapevolmente cristiano rimanga a fondo della coscienza dell’uomo contemporaneo e dunque uno stile di apertura e dialogo quello che si pone a livello di pastorale familiare. Questo mi sembra abbastanza in linea con l’idea dell’abitare le distanze.
Abbiamo visto che il mondo contemporaneo ha una serie di caratteristiche che per noi sono discutibili o che creano degli effetti collaterali che minano la base dei valori.
Attenzione a non dire che il mondo è cattivo. Perché dire una cosa del genere significa che noi ci chiudiamo nella nostra piccola comunità e smettiamo di testimoniare, smettiamo di comunicare, smettiamo di fare tutto, perché il rischio diventa questo.
Se rimaniamo fedeli non ai nostri valori, ma al nostro linguaggio, al nostro modo di comunicare le cose, veramente corriamo il rischio che l’anno prossimo saremo ancora questi, con qualcuno che in meno, probabilmente, nessuno in più.
Una sociologa, molto attenta ai problemi di pastorale familiare, ci dice che dobbiamo intercettare, sapere intercettare quei bisogni reali che stanno dietro la società del nostro tempo.
E’ un po’ quello che dice anche il nuovo documento base della Chiesa italiana sul catechismo: avere la capacità di intercettare i bisogni delle persone che passano attraverso le comunità parrocchiali che passano attraverso il nostro apostolato, cioè di capire quello che c’è dietro e se dietro ci sono delle istanze positive, forse possiamo valorizzarle.
Tutto questo detto in una conferenza di qualche decina di anni fa, in qualche modo, viene ripreso da Papa Francesco nell’Amoris Laetitia che dice: “Non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità.” [A.L. 35]
Nel passato questo è stato ancora più evidente, quando i Vescovi italiani si sono pronunciati contro una determinata norma legislativa. Va bene, è giusto dirlo, ma creare pressioni per questo, è la strada migliore? Noi pensiamo che cambiando una legge, tra due anni non si ritrova di nuovo con un referendum che fa passare quella legge? E’ veramente quella la strada?
Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia.” [A.L.35]
Arrivati a questo punto, passo ad alcune osservazioni molto concrete che a mio avviso possono essere anche recuperate in una riflessione su quello che è il vostro itinerario particolare.
Intanto, se vi chiedete: Ma l’Amoris Laetitia ci da delle risposte pratiche? Da’ delle indicazioni di carattere generale, voi vi renderete conto che questa l’ha letta mezzo mondo, quindi sono per forza di carattere generale.
Quello che dice Papa Francesco è, sostanzialmente, questo: lascio alle comunità ecclesiali locali lo sforzo di trovare nuove strade.
E’ anche vero che diventa difficile dare delle indicazioni pastorali valide a livello globale; non ce ne sono, è anche onesto, da questo punto di vista, ammetterlo.
Ci sono alcuni aspetti. Il primo: il valore della testimonianza della gioia. Vi ricordate l’espressione di Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium? Ci sono dei cristiani che hanno la faccia lunga come la Quaresima senza la Pasqua. E’ così!
Noi cristiani, qualche volta, sarà perché ci vogliamo sentire impegnati, sarà perché ci vogliamo considerare seri, ma che il vangelo sia un’esperienza di gioia…
Io, qualche volta, dico a un mio parrocchiano: sorridi! Perché ce ne sta qualcuno che forse è un po’ appesantito da esperienze passate.
Le famiglie, dice Papa Francesco, sono chiamate a dare la testimonianza gioiosa di coniugi nelle famiglie, ma testimonianza gioiosa significa che io sono contento della scelta matrimoniale che ho fatto, non significa dire che non ho problemi, perché se io, per essere contento, penso di stare senza problemi, probabilmente, l’anno del mai starò ancora con la stessa faccia.
Se io, invece, guardo mia moglie e dico: “sono contento”; guardo mio marito e dico: “sono contenta”; questa è la testimonianza da farsi.
Quando un vostro amico si sposa, risparmiatevi la battutaccia di cattivo gusto: Lascia stare, non ne vale la pena! Perché lascia intendere, se la prende seriamente, che la vostra scelta è stata assolutamente infelice. Poi potete dire quello che vi pare: “Ma lo sai che sto scherzando!”, però sappiamo che, sotto sotto, nelle battute si dice la verità.
Il coinvolgimento della famiglia come soggetto pastorale che annuncia il Vangelo alle altre famiglie. Questo è un discorso un po’ particolare, perché a noi, tutto sommato, piace dire che la famiglia deve fare questo e deve fare quello, in realtà, poi, se la famiglia deve dire a noi preti come, secondo loro, vanno affrontati alcuni argomenti, allora non hanno più voce in capitolo, improvvisamente.
Il discorso sulla soggettività pastorale della famiglia diventa di per sé molto delicato, ci sono alcuni progetti pastorali che sono costruiti proprio sulla famiglia.
Diciamo: “Facciamo un incontro sui metodi contraccettivi? Su quello che si può e non si può fare?”; ma è veramente questo quello che una persona ha bisogno di sentirsi dire? E voi pensate che se io dico che la pillola, oltre a essere un sistema contraccettivo, in realtà ha anche delle ricadute a valle e quindi di tipo abortivo, la persona smette di usarla?
Oppure sono chiamato a dare dei motivi diversi che spingono a scelte diverse e lì ci vuole una certa fantasia, perché se no io, alla fine, propongo la morale del no.
E tante volte, noi riduciamo i nostri itinerari di formazione a quello che si può fare e a quello che non si può fare.
L’Amoris Laetitia propone una formazione che riguarda sia i preti che i consacrati e le consacrate, addirittura propone la presenza delle famiglie e delle donne nei seminari,come testimonianza formativa.
Nei vostri obiettivi [di Ordine Secolare], quando cominciate a dire: fare di ogni famiglia francescana luogo di pace, fedeltà, rispetto della vita, il luogo prioritario per vivere l’impegno cristiano, in cui l’amore degli sposi e l’affermazione del valore della fedeltà sono una profonda testimonianza, tutto sommato state dicendo quello che diceva san Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio: Famiglia diventa ciò che sei!
Questo, tradotto da un certo punto di vista, significa privilegiare l’essere rispetto al fare. Questo che significa, concretamente? Che, teoricamente, ma non solo teoricamente, anche da un punto di vista operativo, si dovrebbero creare quelle condizioni per cui ogni famiglia trova nella fraternità l’ambiente ideale per crescere come famiglia.
Quindi la fraternità diventa questo: luogo per crescere come coppia e come famiglia.
Questo non implica soltanto la formazione di gruppi di famiglie e di gruppi di sposi, ma comporta anche dover rinunciare a delle collaborazioni apostoliche se queste vengono a creare delle interferenze con la vita di coppia.
Io non mi stupirei se anche nelle vostre fraternità si venisse a creare quell’equivoco che talvolta si crea nelle parrocchie, dove si dice: c’è quella coppietta tanto carina, tanto brava, appena sposata, diamogli l’impegno di creare un gruppo famiglia!
Attenzione, potrebbe non essere opportuno, se vogliamo veramente che la famiglia sia veramente luogo di pace, fedeltà, rispetto della vita.
Cioè dovremmo smettere di pensare, noi preti, ma forse nell’ambito dei gruppi e delle associazioni, la coppietta bella, simpatica che ci sembra che abbia capito e possiamo arruolare nell’apostolato.
Perché non risponde all’idea di far crescere quella famiglia come “famiglia”. “Hanno appena avuto un bambino!”, “Vabbè, ma ce la fanno!”.
Io ho una coppia che è partita per la Colombia e avevo pensato a quella coppia per la pastorale prematrimoniale: ho lasciato stare!
Bisogna avere la capacità di saper leggere quali sono i bisogni (della famiglia), fare un discernimento.
C’è un aspetto molto bello dell’Amoris Laetitia che parla della reciprocità vocazionale tra celibato e matrimonio e tra consacrazione e matrimonio, con dei paragrafi anche molto belli. Io confesso che questa reciprocità l’ho vista, cioè, nel momento in cui io ho scoperto che alcune coppie dei gruppi famiglia venivano al gruppo famiglia dopo dieci ore di lavoro e magari si sarebbero svegliate alle due della mattina, per andare a lavorare, ho smesso di lamentarmi degli orari che facevo. Questo significa rendersi conto che forse si tratta anche di cominciare a pensare alle coppie non soltanto che possono ricevere qualcosa dai preti e dai consacrati, ma come coppie chiamate a vivere una reale reciprocità vocazionale con i consacrati e con i sacerdoti e, quindi, non soltanto ricevere, ma anche dare.
Io vorrei che nelle fraternità si realizzasse questo. Non lo dico io; se voi leggete l’Amoris Laetitia, fa un passo avanti, rispetto alla Familiaris Consortio, dove, tutto sommato, si diceva che, come vocazione, quella consacrata, in qualche modo, era superiore.
Qui si dice: sono due modalità diverse di amare! La prima è incarnata nella storicità, la seconda indica la dimensione escatologica dell’amore cristiano; non ce n’è una migliore dell’altra, sono semplicemente diverse.
Terzo, diventa anche importante la formazione e il confronto su alcune tematiche che richiedono un accurato discernimento – io penso che questo sia un aspetto importante – come l’esperienza dolorosa delle malattie disabilitanti nelle famiglie. Il caso di Eluana Englaro è un caso limite, ma ci deve far riflettere, così come ci deve far riflettere il fatto che noi oggi abbiamo anziani di novantacinque anni, magari con malattie disabilitanti, che sono presenti nelle nostre famiglie; o magari abbiamo bambini che nascono con delle problematiche riguardanti il sistema immunitario che talvolta sconvolgono completamente quelli che erano i desideri della famiglia originaria.
Queste sono temi sui quali bisogna confrontarsi, perché sono tematiche di frontiera, non sono veramente chiare ancora e dove non esiste una possibilità di concretizzare quello che è l’insegnamento della Chiesa sui ruoli fondamentali, lì bisognerebbe un po’ capire.
O ancora, il capitolo ottavo dell’Amoris Laetitia che è da intendere bene e dove le letture affrettate di chi dice che, comunque, non è cambiato niente o chi dice che è cambiato tutto, sono comunque letture affrettate e bisognerebbe fare una lettura un po’ più profonda.

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