Incontro Zonale Iniziandi e Ammessi della Zona Interdiocesana di Avellino

Sabato 20 gennaio 2019, presso il convento S. Giovanni Battista, dei Frati Minori di Atripalda (AV), si è tenuto il primo incontro per Iniziandi e Ammessi della Zona Interdiocesana di Avellino, a cui hanno partecipato circa trenta persone provenienti dalle fraternità di Atripalda, Avellino – Cuore Immacolato di Maria, Avellino – Roseto, Mirabella Eclano, Serino e Volturara.
Dopo la “dolce” accoglienza, della fraternità di Atripalda, l’incontro ha avuto inizio con la preghiera dell’ora nona, a cui ha fatto seguito l’introduzione del delegato di Zona, Ciro d’Argenio, che, dopo aver portato i saluti del Consiglio regionale, ha illustrato il tema della giornata: “La Vocazione”, sottolineando l’importanza di non affrettarsi nel dare una risposta a quella che riteniamo essere la nostra Chiamata, perché sono tante le strade per arrivare alla Santità e non è detto che la nostra sia quella della Fraternità Francescana.
Dopo la breve introduzione del delegato di Zona, ha preso la parola p. Luigi Valentino, Assistente Regionale Ofs che ha iniziato la sua riflessione sul tema della giornata.
“Ci sono molteplici sfaccettature della vocazione – afferma p. Luigi –: la vocazione alla vita, la vocazione alla famiglia, la vocazione specifica (al sacerdozio, alla vita consacrata, all’Ordine Francescano Secolare).
Che cos’è la vocazione? Come si colloca la vocazione nella storia dell’umanità?
La parola “Vocazione” deriva dal termine latino vocatio = chiamata. La fonte della Chiamata è Dio.
Dio, quindi, chiama o alla vita religiosa, o ad una specifica missione, a servizio della Chiesa e del prossimo: la vocazione non è mai un dono per se stessi, bensì è un dono per la santificazione personale, ma, soprattutto, per la santificazione del popolo.
Cosa ne facciamo di una vocazione chiusa in se stessa, non condivisa con gli altri?
Gesù ci ha insegnato che poteva salvare il mondo senza entrare in relazione con gli altri, invece no, ha voluto abbassarsi, ha conosciuto il popolo, gli uomini e ha portato il messaggio di salvezza.
È Dio che, di sua iniziativa, chiama e l’uomo risponde liberamente.
Nell’Antico Testamento la radice ebraica del termine che si dice qârâ, viene nominata 760 volte, questo verbo – relativo alla chiamata – vuol dire richiamare l’attenzione di una persona con il suono della voce, per entrare in contatto con lei.
Infatti nella Sacra Scrittura vediamo che Dio chiama, usa la Sua voce, parla; il profeta sente la voce di Dio, si mette in ascolto per poi andare.
Nel Nuovo Testamento, invece, il tema della vocazione è richiamato 230 volte e deriva dal greco kaléo che significa: chiamare vicino a sé.
Nella vocazione Dio dice all’uomo: Io ti voglio per me, ti voglio vicino a me, perché ti affido un compito, una missione.
Ogni singolo uomo ha una missione, solo che a volte l’uomo non riesce a comprenderla, perché non si mette all’ascolto di Dio.
La vocazione, possiamo dire, è un rapporto speciale tra Dio e l’uomo. Questo rapporto, però, è asimmetrico, perché c’è una sproporzione tra Dio che è infinitamente grande e l’uomo che, al contrario, è infinitamente piccolo.
Questa sproporzione, a volte, ci fa sentire inadeguati, rispetto alla fiducia che Dio, così grande, ripone in noi, così piccoli.
Questa, però, è la pedagogia che Dio usa; San Paolo dice che Dio sceglie nel mondo ciò che è debole, affinché nessuno possa gloriarsi e vantarsi dinanzi a Lui.
Nel manifestarsi all’uomo, Dio non lo fa attraverso gesti eclatanti o grandi manifestazioni, ci sono nella storia dell’umanità, ma sono rare, in genere Dio sceglie il silenzio (la brezza leggera…), Dio sceglie il nascondimento, Dio sceglie l’umiltà.
Sono rare le vocazioni in cui Dio ha scelto in maniera manifesta e chiara, dove Dio si è rivelato direttamente a quella determinata persona, come per Padre Pio o altri Santi.
Dio, in genere, sceglie la via ordinaria: da degli impulsi alla sequela e l’uomo si mette alla ricerca.
Diceva Santa Faustina Kowalska, in rapporto a questo Dio infinitamente grande: “Il Creatore e la creatura: l’Amore pareggia l’abisso”; per questo non dobbiamo avere paura o timore dinanzi a Dio, dobbiamo soprattutto amare.
Quando Dio chiama l’uomo, non si comporta mai allo stesso modo; la caratteristica della chiamata di Dio è che è sempre originale, mai uguale all’altra: la chiamata è unica e personale.
Siamo tutti accomunati dalla stessa esperienza di chiamata, ma ognuno di noi è unico e sta’ vivendo un’esperienza unica di chiamata.
Nella Sacra Scrittura, il primo personaggio della fede è Abramo che viene chiamato “il nostro padre nella fede”, perché prima di lui non c’è nessuno.
È il primo personaggio biblico che Dio sceglie per iniziare il percorso di fede e di salvezza nella storia dell’umanità.
Dice la Sacra Scrittura che Abramo restò affascinato dalla voce di Dio, perché nella Sua voce c’è qualcosa di nuovo e di bello da seguire. Nello stesso tempo, però, la voce di Dio provoca un “dramma” dentro di noi, perché sconvolge la nostra vita; la vocazione ci chiama ad uscire da noi stessi e a metterci in gioco, a metterci in discussione, a metterci in contatto con gli altri.
Lo vediamo, in particolare, in alcuni profeti come Elia, Eliseo, Geremia, Giona che vivono come un dramma la loro vocazione, perché sperimentano il netto rifiuto del popolo, perché quello che loro annunciano non si realizza, eppure quello che annunciano è dio stesso che glielo suggerisce; il profeta sperimenta il dramma del non essere capito, di non essere ascoltato.
La chiamata di Dio è irrevocabile: se Dio ha chiamato, ha chiamato per sempre, non può ritrarre la sua chiamata; San Paolo dice che i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili.
Purtroppo, nella chiamata, si può sperimentare l’infedeltà che, se ripetuta, può portare al fallimento di quella chiamata, di quella vocazione.
Questo è stato sperimentato anche dal popolo d’Israele che, quando peccava e si allontanava da Yahweh, viveva male, invece, quando tornava a Dio – che lo richiamava in continuazione – riviveva quell’amore, quell’alleanza.
La storia dell’umanità, quindi, è fatta di tradimenti e di ricongiungimenti.
Nell’Antico Testamento le figure di Abramo, Mosè, Samuele, Geremia, sono il simbolo della chiamata.
La frase che Dio pronuncia e che accompagna ogni chiamato è: “Io sarò con te!”; Dio è con me, non sono solo nella missione che mi ha affidato, perché quello che Dio promette, si realizza, anche nel tempo.
L’esperienza di conversione di San Francesco cominciò quando era rinchiuso nelle prigioni a Perugia, quando fu catturato durante la guerra tra Perugia e Assisi.
In prigione incominciò a leggere il Vangelo, incominciò a cambiare vita.
C’è, però, una differenza tra la conversione e la chiamata, non sempre chi si converte è chiamato ad una vocazione specifica nella Chiesa, ad esempio al sacerdozio o alla vita consacrata, può essere una conversione per un altro tipologia di missione.
Alcuni pensano, dopo essere stati convertiti, di essere stati chiamati a una vita consacrata e per questo è importante il discernimento, cioè capire qual è la strada che devo vivere, quella più giusta per me.
La chiamata, quindi, è un progetto che Dio ha per ognuno di noi.
Nell’Antico Testamento Dio sceglie un popolo: il popolo di Israele che chiama “nazione santa” e “regno di sacerdoti”.
I singoli, poi, cioè i profeti, vengono chiamati per realizzare questa missione. I profeti sono tutti coloro che parlano in nome di Dio, cioè sono messaggeri di Dio.
Nel Nuovo Testamento la chiamata si estende a tutta l’umanità; cioè Dio entra nel mondo scegliendo un popolo, ma poi questo popolo diventa tutta l’umanità: Dio chiama tutti tramite Gesù.
Santità, infatti, significa: non terreno, cioè è una chiamata che va oltre l’umano.
Chi sono coloro che realizzano questa chiamata nel Nuovo Testamento? Sono, prima di tutto, gli apostoli, poi i discepoli degli apostoli e, infine, i discepoli dei discepoli.
Anche noi siamo discepoli, cioè coloro che si mettono alla sequela di Gesù per realizzare nel tempo di oggi il suo messaggio.
La nostra vocazione, quindi, è missionaria; una vocazione che non è missionaria o non è vera vocazione o è chiusa in se stessa.
La vita contemplativa è una missione particolare all’interno della Chiesa.
Come detto in precedenza, ci sono due dimensioni della vocazione: quella personale e quella comunitaria.
Vengo chiamato personalmente a seguire il Signore, ma scelgo di vivere la mia vocazione insieme a dei fratelli.
Ci sono dei pericoli che possono caratterizzare la vita del “chiamato”: la paura di sentirsi soli, inadeguati, non sentirsi all’altezza, il dubbio (Signore mi hai chiamato, o meno… sto facendo bene, o meno).
Per superare questi momenti, è importante la presenza di una guida, un direttore; non possiamo camminare da soli, nella nostra vocazione è importante avere un punto di riferimento che possa illuminare la nostra strada e la nostra vita.
Non possiamo metterci in cammino da soli, è importante confrontarci con persone che hanno esperienza in merito alla vocazione, per illuminarci, per questo è importante il discernimento.
Quando Dio chiama, da dei doni: i talenti.
Ognuno di noi possiede dei doni, dei talenti e la fraternità è una palestra per capire quali doni abbiamo.
Per questo è importante il confronto costante all’interno della fraternità, perché così capiamo quali sono i nostri lati positivi e quali quelli negativi, in che cosa possiamo migliorarci, ecc.
Discernimento significa: provare, riconoscere, distinguere attentamente.
Esistono due tipi di discernimento: il discernimento acquisito e il discernimento infuso.
Il discernimento acquisito è un dono di Dio ed è fallibile, cioè posso sbagliare, e deve essere accompagnato dalla preghiera e dal confronto.
Il discernimento infuso è un dono di Dio, ma è infallibile. Questo dono lo hanno avuto alcuni santi, come Padre Pio da Pietrelcina che era infallibile nel consigliare la cosa giusta a chi gli chiedeva cosa dovesse fare, perché era Dio che glielo diceva.
Un modo specifico attraverso cui passa la vocazione religiosa, è quello dei consigli evangelici.
Per i frati, ad esempio, i consigli evangelici professati sono raffigurati nei tre nodi sul cingolo che rappresentano l’impegno di vivere in castità, senza nulla di proprio e in obbedienza.
Si chiamano consigli evangelici, perché sono un consiglio per vivere in maniera più radicale la sequela di Gesù Cristo: non è un obbligo, è un consiglio.
I frati vivono in una fraternità, dove ci sono persone che hanno ruoli diversi, come avviene per l’Ordine Francescano Secolare.
In un convento, ad esempio, c’è il padre guardiano a cui i frati del convento sono tenuti a dare obbedienza e a rendere conto di quello che fanno, come accade all’interno di una famiglia.
Oggi non esiste più l’obbedienza cadaverica – che era un’obbedienza pre-conciliare – in cui il superiore impartiva degli ordini ai frati, senza che questi potessero proferire parola.
Oggi si parla di obbedienza dialogata, ben diversa da quella cadaverica, perché si dà la possibilità, a chi riceve un comando, di esprimere un parere, cioè di confrontarsi con il suo superiore.
Chi ha un ruolo di “potere” non lo deve usare per schiacciare il fratello, ma per servirlo.
Quindi, non sono atteggiamenti positivi sia quello dei fratelli che non ascoltano le istruzioni del superiore (o del ministro, nel caso dell’Ofs), sia quello del superiore (o ministro) che tiranneggia la fraternità.
Il confronto costante è importante e se le persone non si vogliono confrontare, vuol dire che non si vogliono mettere in discussione.
Il secondo consiglio evangelico è quello della povertà. Quando i frati emettono la Professione affermano: “Prometto di vivere il Vangelo, osservando la Regola di San Francesco, secondo le Costituzioni dei frati Cappuccini, vivendo in castità, senza nulla di proprio e in obbedienza”.
“Senza nulla di proprio” e “povertà” non è la stessa cosa, infatti, vivere senza nulla di proprio significa: vivere condividendo i beni che abbiamo; ai frati, quindi, non può essere intestato alcun bene e quello che hanno lo condividono con gli altri.
Si è arrivati a questa soluzione, perché il tema della povertà ha causato parecchie divisioni nei primi secoli di francescanesimo.
Francesco ha estremizzato la povertà, perché era un “folle d’amore” e aveva visto nella povertà una via di sequela privilegiata per arrivare a Cristo, cioè spogliandosi di tutto rimaneva solo lui e Gesù.
Però bisogna anche fare i conti con i segni dei tempi che cambiano e allora parliamo di sobrietà, di uso dei beni; se faccio una spesa, è necessaria?
La castità è sempre stato un dilemma nella vita della Chiesa: è giusto sposarsi o meno… Oggi si sta parlando di questo aspetto, cioè se anche il prete può sposarsi o meno, ma, a prescindere da tutto, i frati comunque non possono sposarsi, perché hanno fatto voto di castità.
La vita della persona casta prefigura l’escatologia, cioè la vita che sarà, questo perché il sacramento del matrimonio cesserà quando uno dei due sposi muore.
Infatti, quando uno dei due coniugi muore, l’altro rimane vedovo e può risposarsi (Cfr Lc 20,27-38).
L’unico Sacramento che è indelebile dinanzi a Dio, anche nell’aldilà, è il Sacramento dell’Ordine Sacro.
Quindi, quando saremo nell’aldilà, dice la Tradizione della Chiesa, saremo tutti fratelli e sorelle.
Perché la Chiesa invita nella sequela di Gesù ad essere casti? Ad essere celibi? Per dedicarsi maggiormente al servizio della Sua causa.
Vediamo, infatti, alcune chiamate profetiche (Geremia, Elia, Eliseo) a cui Dio ha chiesto espressamente di essere casti in maniera totale, per una dedizione totale alla missione affidata da Dio”.

A conclusione del suo intervento, p. Luigi legge un brano dalle Fonti Francescane in cui si racconta come Francesco d’Assisi viveva gli inizi della sua vocazione.

“[…] Conducendo un suo compagno, che aveva molto amato, in località fuori mano, gli diceva di avere scoperto un grande e prezioso tesoro. Quello ne fu tutto felice e volentieri si univa a Francesco quando era invitato.
Spesso lo conduceva in una grotta, presso Assisi, ci entrava da solo, lasciando fuori l’amico, impaziente di impadronirsi del tesoro. Francesco, animato da un nuovo straordinario spirito, pregava in segreto il Padre; però non confidava a nessuno cosa faceva nella grotta; Dio solo lo sapeva, e a lui incessantemente chiedeva come impadronirsi del tesoro celeste […]
Pativa nell’intimo sofferenza indicibile e angoscia, poiché non riusciva ad essere sereno fino a tanto che non avesse realizzato la sua vocazione. I pensieri più contrastanti cozzavano nella sua mente, e la loro importunità lo sconvolgeva. Nel cuore però gli ardeva un fuoco divino, e non riusciva a celare esteriormente quell’ardore. Era affranto dal pentimento di aver cosi gravemente peccato, ma le colpe passate e le tentazioni presenti non lo allettavano più, sebbene non fosse ancora sicuro di non ricaderci.
All’uscire dalla grotta, all’amico egli appariva divenuto un altro uomo.” [F.F. 1409]

Dopo il passo tratto dalle Fonti Francescane, p. Luigi legge alcune piste di riflessione da cui sono scaturiti gli interventi dei presenti.
L’incontro si è concluso dopo le 17.30, ma certamente è continuato nel cuore dei partecipanti.

La vocazione

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